di Vittorio Ricciardelli
Con le modifiche apportate dal d.lgs. 90/2017 al d.lgs. 231/2007, le pubbliche amministrazioni non rivestono più la qualità di “soggetti obbligati” (art. 3 del d.lgs. 231/2007), categoria di soggetti, quest’ultima, che in caso di inosservanza delle specifiche prescrizioni, in tema di prevenzione e contrasto all’uso del sistema economico e finanziario a scopo di riciclaggio e finanziamento del terrorismo, è soggetta a pesanti sanzioni.
Pur non essendo più inquadrate nella cerchia dei soggetti obbligati, le pubbliche amministrazioni (….competenti allo svolgimento di compiti di amministrazione attiva o di controllo….) sono tenute a comunicare alla UIF dati e informazioni concernenti operazioni sospette di cui vengano a conoscenza nell’esercizio della propria attività istituzionale, giusto quanto disposto dal vigente art. 10 del d.lgs. 231/2007, al quale le pubbliche amministrazioni sono state specificatamente ricondotte e nel quale sono individuati di ambiti di specifica pertinenza.
Sancito che anche gli appartenenti alla pubblica amministrazione hanno il dovere di operare in tal senso (e non la facoltà di scegliere se farlo), la filosofia posta a fondamento di tale forma di collaborazione (oltre al dovere intrinseco imposto dall’osservanza delle leggi dello Stato), vorrebbe che i soggetti a ciò destinati vi provvedano nella consapevolezza che tale attività è finalizzata al presidio della legalità del territorio di appartenenza, per sostenere e consentire alle aziende sane di sopravvivere, resistendo alla concorrenza sleale esercitata dalle imprese che impiegano denari di provenienza illecita.
In tal senso, per farsi una semplice idea di quale potrebbe essere una situazione meritevole dell’impegno richiesto per il bene del proprio territorio, è sufficiente provare a pensare, a titolo di ipotesi, a due ristoranti analoghi, per dislocazione, per dimensioni, per numero di dipendenti, il primo dei quali sulla piazza da anni ed a conduzione familiare, il secondo di recente avviamento, gestito da prestanome, per conto dei titolari effettivi, legati alla criminalità organizzata.
Un imprenditore sano mai si sognerebbe di avviare una attività nei pressi di una analoga, già radicata da tempo, essendo alto l’indice di insuccesso; nel caso di specie, invece, il rischio non sussiste, perché il potenziale economico dei proprietari del secondo ristorante (frutto di proventi illeciti) consente loro, non solo di “lavorare” in perdita ma, addirittura, di offrire un servizio analogo a quello dei concorrenti ad un prezzo inferiore, sottraendo loro la clientela per portarli, col tempo, inesorabilmente alla chiusura.
Tale contaminazione “strisciante” è più diffusa di quanto si possa credere e, nel tempo, oltre a comportare l’alterazione della libera concorrenza e l’indebolimento delle tutele dei lavoratori, produce un incremento del rischio di corruzione nelle istituzioni.
Tenuto conto di quanto sopra risulta più che evidente quanto possa essere rilevante il contributo del personale delle pubbliche amministrazioni e, in particolare, di quello degli enti territoriali, per la difesa della collettività e il risanamento del territorio, arginando il dilagare dell’infiltrazione delle organizzazioni criminali e per contrastare il finanziamento del terrorismo.
Oltre a tali aspetti di elevato senso etico/sociale, non si può non tenere in considerazione un ulteriore aspetto utile, derivante dall’espletamento delle attività in narrativa che, senza costi e/o dispendio di risorse ed energie, può portare profitto all’ente di appartenenza tramite le, così dette, “segnalazioni qualificate” all’Agenzia delle Entrate.
L’attività di analisi di fatti che portano a formalizzare comunicazioni di operazioni sospette alla UIF, non di rado tiene conto delle situazioni patrimoniali dei soggetti presi in esame, analisi dalle quali, proprio per le incongruenze esistenti tra i redditi dichiarati e l’operatività economica accertata, emergono situazioni idonee, a tutti gli effetti, per la formalizzazione di segnalazioni qualificate all’Agenzia delle Entrate che, come noto, producono il riconoscimento all’ente segnalante dei tributi evasi dai soggetti segnalati (chiaramente dopo la relativa istruttoria da parte del personale dell’AdE).
Sul punto si evidenzia, sin d’ora, che nel caso in cui dovesse essere formalizzata segnalazione qualificata all’Agenzia delle Entrate, nella stessa non si deve, nella maniera più assoluta, fare alcun riferimento al fatto che le risultanze derivano da un accertamento antiriciclaggio, perché, come meglio chiarito in apposito capitolo, una condotta del genere andrebbe ad integrare specifiche violazioni di legge.
Illustrando la normativa in questione a chi per la prima volta se ne è approcciato, immancabilmente si è reso necessario far comprendere che la sua attuazione non implica un aggravio dei compiti ordinariamente svolti;
in realtà quello che viene chiesto, in particolare agli operatori di primo livello, è di non trascurare quei segnali che, istintivamente ed in virtù delle proprie professionalità, sia nel passato che nel presente sono stati motivo di dubbio e che, per l’assenza di anomalie procedurali (sia di carattere amministrativo che penale), non hanno potuto avere uno sfogo proprio.
Oggi, diversamente, proprio grazie alla normativa in narrativa, quegli stessi dubbi hanno la possibilità di essere valorizzati (senza incidere in alcun modo sulla normale istruttoria delle pratiche trattate parallelamente), fino a giungere alla formalizzazione di comunicazioni alla UIF, con risultati neanche lontanamente immaginabili.
Oltre all’aspetto di cui sopra, è stato constatato che la carenza di collaborazione attiva da parte delle pubbliche amministrazioni, in linea di massima, si riconduce ai seguenti fattori:
• la normativa antiriciclaggio viene percepita come un mero adempimento formale;
• gli obblighi segnaletici, del tutto erroneamente, vengono percepiti come di esclusiva competenza del mondo bancario e finanziario;
• dall’errato convincimento che le operazioni sospette possano emergere solo attraverso la disponibilità e l’impiego di sofisticati strumenti di ricerca e selezione dei dati, di cui le pubbliche amministrazioni non dispongono;
• dalla mancanza di un punto di riferimento organizzativo a cui fare pervenire le situazioni sospette da analizzare e valutare;
• dalla scarsa, se non del tutto assente, cultura dei controlli interni all’ente;
• dai dubbi interpretativi afferenti all’individuazione delle figure destinatarie degli obblighi segnaletici;
• dal dubbio che agendo ai fini antiriciclaggio ciò possa causare interferenze e/o intoppi a discapito delle attività amministrative ordinarie (ad esempio: Domanda: Una comunicazione di operazione sospetta può bloccare una procedura d’appalto? Risposta: NO)
Non deve preoccupare il fatto che possa avviarsi una attività di verifica sull’innesco costituito da un semplice dubbio, tant’è che la specifica normativa fa espresso riferimento a situazioni che fanno sorgere il dubbio ….. (che sorge a persone professionalmente capaci ed attente) e non dalla certezza che siano state poste in essere operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, nel quel caso andrebbe formalizzata una comunicazione di reato all’autorità giudiziaria.
Eloquente, in proposito è il seguente periodo:
“La segnalazione di operazioni sospette non si fonda (necessariamente) su evidenze di reato, ma su ragionevoli motivi di sospetto desunti dalle connotazioni finanziarie delle operazioni poste in evidenza; pertanto, così come non è detto che da un giusto sospetto iniziale faccia sempre riscontro l’effettiva esistenza di un crimine, non è detto che sia infondato un sospetto per cui le indagini non pervengano a certezze sul reato compiuto.”
Chiaramente, non tutti i soggetti potenzialmente interessati dalle procedure di cui al vigente art. 10, I° co., del d.lgs. 231/2007 possono essere chiamati a svolgere analisi ed approfondimenti per pervenire alla formalizzazione di comunicazioni alla UIF, tant’è che la normativa prevede, espressamente, che l’Ente nomini un proprio Responsabile antiriciclaggio, denominato “gestore” (unico soggetto titolato ad interfacciarsi con la UIF), cui compete l’onere di organizzare la formazione del personale interessato e l’eventuale filiera di collaboratori, dall’accertatore di primo livello all’analista/segnalatore.
La differenza di competenze sopra accennata è sostanziale in quanto, mentre agli operatori di primo livello [ossia tutti coloro i quali sono deputati alla trattazione iniziale delle pratiche rientranti nelle attività previste nell’art. 10, co. 1, lettere a), b) e c) del d.lgs. 231/2007] compete la rilevazione delle situazioni e/o delle condotte anomale che si rispecchiano negli indicatori di anomalia appositamente categorizzati per la pubblica amministrazione, agli analisti compete quello di sviluppare l’innesco fornito dagli operatori di primo livello, provvedendo agli opportuni approfondimenti, necessari per fare emergere le eventuali operatività sospette, ciò ricorrendo alle informazioni fornite dalle banche dati nella loro disponibilità ed aggregando le risultanze per fornire alla UIF un quadro preciso e dettagliato di quanto emerso.
Per quanto attiene agli aspetti e specificità, abbozzati in quest’ultimo periodo, i relativi approfondimenti si rimandano ad un successivo, specifico, articolo.